Civiltà del Lavoro, n. 4-5/2025

35 FOCUS Civiltà del Lavoro | settembre • ottobre 2025 Occorre tempo per aumentare la diversificazione, ma se ne parlava già da tempo, ben prima del secondo mandato di Trump. Le imprese italiane tendono un po’ troppo a stare sui mercati vicini, conosciuti. Come si comportano le imprese di altri paesi come Francia e Germania? Sono più coraggiose nell’esplorare nuovi mercati? Lo sono e per diverse ragioni. Da un lato sono mediamente più grandi, dall’altro ci sono forti legami con le ex colonie, come nel caso francese, che rendono queste aree geografiche più familiari. Rispetto a noi, quindi, Francia e Germania hanno dei vantaggi, ma non sono insuperabili. Gli Stati Uniti sono sicuramente importanti, ma il loro peso sul mercato mondiale è in declino già da tempo e per questo motivo credo davvero che sia necessario guardare oltre. Lei insegna politica economica. Rispetto a soli dieci anni fa lo scenario internazionale è cambiato. Come commentano i giovani, i suoi studenti, questa fase di passaggio? Sono forse meno perplessi di noi. Noi siamo abituati a un determinato scenario globale, per loro è meno ovvio che le cose stiano in un certo modo. Al Politecnico abbiamo studenti che vanno a studiare in Cina con la stessa disinvoltura con la quale vanno negli Stati Uniti. In generale, sono molto meno preoccupati da un riequilibrio mondiale. Ma in quel caso il vantaggio di aprire un nuovo mercato non sarebbe annullato dai maggiori costi sostenuti per il trasporto e la logistica? Ovviamente occorre organizzarsi. Sono mercati difficili per le piccole imprese, sia per gli aspetti che ha ricordato lei, sia per barriere anche di altro tipo. Tuttavia, è possibile beneficiarne e non dobbiamo dimenticare che sono mercati che stanno crescendo molto più rapidamente di quelli dei paesi avanzati. Bisogna organizzarsi in gruppi di imprese, in reti, e non è una cosa che si riesce a fare dall’oggi al domani. Nonostante ciò, ritengo che possano benissimo compensare quello che si perde sul mercato americano. A parte la ricerca di nuovi mercati, quali altri strumenti potrebbe mettere in campo l’Europa per rispondere all’instabilità generale che il presidente Trump sta portando nella politica commerciale? Secondo me sarebbe molto importante per l’Unione europea prendere il posto che è stato lasciato vacante dagli Stati Uniti nell’indirizzare le regole del commercio internazionale a livello globale. Dal dopoguerra ad oggi gli Usa sono stati i difensori di un sistema di mercati aperti, di regole sugli scambi e così via. Oggi non lo sono più. L’Unione europea dovrebbe difendere questo tipo di assetto globale perché è nel suo interesse e in quello di tutti i mercati emergenti; potrebbe quindi tirarsi dietro una serie di paesi per continuare ad avere un mercato aperto. Parlando delle imprese italiane, secondo il Centro Studi Confindustria gli Stati Uniti sono la prima destinazione extraeuropea dei flussi italiani di beni e servizi e investimenti diretti all’estero. Secondo lei, possono reggere l’impatto dei dazi americani? A mio avviso possono reggere, anche se naturalmente ci sono esposizioni differenti tra imprese e fra settori. Dal dopoguerra ad oggi gli Usa sono stati i difensori di un sistema di mercati aperti, di regole sugli scambi e così via. Oggi non lo sono più. Tocca all’Europa Foto maxxyustas © 123RF.com

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